Carlo FRANZA
Spazialismo e costruttivismo convivono nel percorso artistico di Vincenzo Mascia, convivono nella geniale interpretazione di un artista che aderendo al Madì ha liberato lo spazio e l'oggetto, che vengono così concepiti come elementi plastici, in movimento, alla ricerca di una vettorialità che va da est ad ovest e da sud a nord, un tracciato costruito nella dinamica di aperto e chiuso, di interno ed esterno, di concavo e convesso, e mille altre aggetture. I suoi ambienti spaziali, le sue strutture, le sue costruzioni svelano la purezza della superficie, la severa monocromia che veste ogni corpo nella sua fenomenologia di lettura, i segni e i segmenti che intervallano la percettibilità spaziale, le assonanze fra l'assunzione dello spazio in senso ludico ma anche tecnico e scientifico. Punti e traiettorie, tessuti e mondi architetturali, tracciati di pittura analitica appena soffiati nei moduli cellulari, sequenze modulari e assemblaggi, oggettualità neoplastiche, continuità e discontinuità, fanno vivere a Vincenzo Mascia una novella realtà secondo riferimenti multipli e polisemici, accentuati da questa tendenza, oggi forte alla superficie e alla linearità.
Febbraio 2015
Silvia VALENTE
Assenza di narrativa, cancellazione del pre-concetto, azzeramento della fonte emotiva e/o di riflessioni psicologiche: questo è tutto ciò che si ritrova nelle opere di Vincenzo Mascia. A dispetto dell’andamento contemporaneo, sempre più proteso alla matrice individualista e all’azione forzatamente introspettiva, Vincenzo Mascia ha scelto di appartenere a qualcosa, di sposare e condividere le idee di un movimento, il pensiero di altri artisti che, come lui, decidono di confrontarsi sul piano pittorico con rigore e scientificità. Parliamo del movimento MADI nato agli inizi degli anni Quaranta in Argentina e diffusosi col tempo anche in Europa. Mascia incarna alla perfezione questa poetica, le opere sono testimonianza viva di un credo artistico affrontato con metodo e disciplina in cui si ritrovano gli elementi propri del pensiero MADI rielaborati con interpretazioni prive di stereotipi e rigidità espressiva; lavori liberi e manifestati al massimo delle potenzialità. Analisi critica e ricerca, dunque, spingono l’artista all’ideazione di opere straordinariamente creative in cui il dato ludico gioca un ruolo importante. I codici rappresentativi di tradizione classica vengono scardinati dall’artista che, fedele alle teorizzazioni MADI, fuoriesce dalla “castrazione” perpendicolare e sperimenta nuove possibili soluzioni compositive; la rasserenante staticità geometrica è abilmente estromessa in favore di una maggiore libertà espressiva in cui il colore assume toni di ritrovata funzionalità. I poligoni lignei di Mascia veleggiano in atmosfere esteticamente giocose, fatte di sovrapposizioni semplici e lineari in cui la tensione verso lo spettatore crea dinamiche spaziali eleganti e composte. A dispetto del suo rigore interpretativo, l’opera appare libera e incondizionata, ogni retaggio realistico è cancellato a partire da quelle rotazioni lungo i piani che creano nuove idee di spazio. Gli orizzonti percettivi si ampliano e l’osservatore si ritrova parte integrante di architetture colorate di grande effetto ottico. La matrice costruttivista emerge con impeto e si lega alle teorizzazioni suprematiste con grande raffinatezza, sconfinando in analisi neoplastiche legate principalmente all’utilizzo del colore. Il gioco degli opposti primeggia caldamente e l’artista si muove seguendo quelle
traiettorie diagonali che sembrano condurlo, assieme allo spettatore, in una dimensione parallela e infinitamente replicabile. Il colore diviene forma, perde la naturale fluida consistenza, è nobile nella sua stabilità, prosciolto dall’ostinata azione del “riempimento”ma, finalmente, protagonista dell’assoluto.
2014
Tommaso EVANGELISTA
Mascia: l’esprit de geometrie tra architettura e design. Para el madismo, la invención es un “método” interno, superable, y la creación una totalidad incambiable. Madí, por lo tanto, INVENTA Y CREA. (Manifesto MADI’)
Le opere di Vincenzo Mascia ci pongono davanti al problema della forma e dell’ipotesi dello spazio in un momento in cui le strutture contemporanee sembrano aver smarrito la capacità di riassumere in sé la logica della costruzione. Sono tessere di un’unica struttura immaginaria e utopica della quale non conosciamo le dimensioni ma solo i particolari, frammenti perfetti e (in)stabili di un’architettura illusoria e concreta allo stesso tempo, immaginata tra i vuoti delle sagome. Attraverso queste configurazioni pure la geometria formale ci parla di un microcosmo dove forze contrastanti, per segreto equilibrio, si trasmettono stabilità bilanciandosi su proiezioni non ortogonali e dove ogni segno-pattern trova il suo posto sul piano non per desiderio descrittivo (astrattismo come sintesi estrema del reale) ma per intuizione formale. Non è estrema imitazione del dato sensibile o rispecchiamento della natura tangibile ma oggettiva ricerca di spazio non mimetico che esalta il gioco dialettico dei modelli applicati. I colori puri e la luce che si modula naturalmente sulle sagome estroflesse, aprendo ad ulteriori conformazioni, concorrono a trasmettere vitalità e dinamismo ad opere nate da un pensiero estetico che esalta il disegno geometrico e la logica dell’idea. Anche se una regola rigorosa soggiace a tali configurazioni astratto-concrete si percepisce, nel piacere della sperimentazione, una forte carica ludica nell’uso dei vari moduli pensati come blocchi di un gioco in divenire. Opere sul limite dei “generi” i lavori di Mascia giocano con le varie arti in maniera autonoma e con l’idea del non prendersi troppo sul serio: c’è l’elemento pittorico dato dall’accostamento di tasselli colorati, come fossero tarsie contemporanee, c’è naturalmente l’elemento scultoreo dato dalla tridimensionalità e lo sfalsamento dei piani, c’è naturalmente l’architettura in quanto occupazione e trasfigurazione di uno spazio (“Una struttura diventa architettonica, e non scultorea, quando i suoi elementi non hanno più la loro giustificazione nella natura”, Apollinaire) e di conseguenza si percepisce anche la musica (“Definisco l’architettura musica congelata” Goethe) nella stessa misura per la quale si intuisce il ritmo in Boogie Woogie di Mondrian. Pause, interruzioni, sovrapposizioni, intervalli, simmetrie, sfalsamenti, corrispondenze e contrasti sono tutte figure retoriche che l’artista adopera nella costruzione e che dimostrano l’assoluta autonomia degli elementi ora in armonia ora in discontinuità tra loro. Infine abbiamo il tempo (relativo) poiché i lavori si mostrano allo sguardo proponendo sistemi nuovi dove durate, periodi e sospensioni non sono quelli standard, unificati, ma momenti di dimensioni parallele e in ciò il discorso di accosta molto alle opere di Fontana (e alla rivoluzione spazialista), artista sempre amato da Mascia.
Breve accenno va fatto al movimento MADI’ che l’artista frequenta dal 1996 e nella cui ottica sperimenta i propri elementi. MADI (Materialismo Dialettico), che rappresenta una contrapposizione al costruttivismo, è attivo a partire dagli anni Quaranta quando fu fondato a Buenos Aires da Carmelo Arden Quin con la convinzione che l'arte geometrica potesse essere molto più libera, aperta e incline al gioco. Rompendo la tradizionale concezione del quadro chiuso tra linee ortogonali sperimenta, per la prima volta, superfici poligonali e stratificate dando grande risalto alla tridimensionalità. Rifiutando ogni sorta di automatismo della rappresentazione parte da una spiccata sensibilità formale, legata anche ad istanze sociali, per sviluppare una geometria portata al limite del segno e del confine delle linee. La prima esposizione, organizzata all’Instituto Francés de Estudios Superiores di Buenos Aires del 1946, sancisce, la nascita del Movimento governato dai principi “oltre il quadrato” ed “oltre il quadro”: l`opera Madì infatti ha una “forma in sé” senza costrizione, all`interno di un perimetro regolare, e mette fine al dominio dei soli quattro angoli. Altra novità è l’uso di materiali nuovi: plastica, acciaio, vetro, plexiglass. La seconda esposizione viene inaugurata presso lo studio di Lucio Fontana. Lette in quest’ottica le opere di Mascia, pur legate al Costruttivismo e al Suprematismo e a certe declinazioni dell’astrattismo di Mondrian, acquistano valenze e autorità nuove: l’utilizzo dei tasselli in legno e di elementi colorati, la costruzione irregolare che supera le cornici, la moltiplicazione dei punti di osservazione grazie anche a giochi di luce ed ombra, il rigore della geometria stemperato dalla componente ludica, di gioco esperienziale, la ricerca di altre dimensioni (spaziali e temporali), l’isolamento del linguaggio, l’equilibrio di forme e colori sono tutti elementi che vanno nella direzione di una fusione tra arte, concretezza e invenzione. Come scrive l’artista “l’architettura si manifesta attraverso l’unità di forse contrastanti”; agisce quindi l’idea della contaminazione nel nome della geometria ma anche la volontà di pensare le opere inserite in un ambiente ben strutturato ed in ciò sono molto più vicine al design di quanto si pensi. “Non mi sento pittore, designer piuttosto. I miei lavori li concepisco come prototipi di una produzione seriale. Un oggetto di design è tanto più vero quanto più esso entra nella nostra quotidianità senza stravolgerla. Nei miei lavori allo stesso modo ricerco la banalità. L’oggetto accompagna la nostra vita con la sua anonima, muta e rassicurante presenza”, scrive l’artista, e l’idea che un oggetto creato e strutturato, pensato come forma significante e contrastante, possa diventare silenzioso prodotto autonomo e anonimo, ma in perenne confronto con lo spazio che occupa, è forse la conquista più significativa.
Aprile 2012
Maurizio VITIELLO
Note critiche sulla produzione plastico-pittorica "madi" dell'artista molisano Vincenzo Mascia ed intervista a cura di Maurizio Vitiello. Il giovane Vincenzo Mascia, nel 1976, si iscrive alla Facoltà di Architettura dell’Università di Roma laureandosi nel 1982. Durante gli studi segue i corsi di storia dell’arte tenuti da Filiberto Menna appassionandosi all’arte concettuale. Di questo periodo sono alcune sue opere nate dall’indagine e dall’analisi del lavoro di Magritte, Duchamp e Kosuth. Presto si convince che l’arte sia soprattutto un fatto mentale, quindi non praticherà mai la pittura in senso tradizionale. La conoscenza ed il suo grande amore per l’avanguardia costruttivista e neoplasticista lo portano, a partire dal 1986, a comporre i primi lavori concretisti. Nel 1987 realizza la sua prima significativa personale alla Galleria Comunale di Campobasso. Prosegue la sua ricerca nel campo dell’astrazione geometrica e nel 1991 realizza le sue prime strutture, si badi bene “ estroflesse”. Partendo da quella che lui considera "la grande rivoluzione spazialista" esamina il lavoro dell’immenso Lucio Fontana in quanto spazio reale non illusorio, in contrapposizione allo spazio prospettico. Nel 1992 conosce Anna Canali, direttrice della galleria Arte Struktura di Milano e partecipa alla mostra "L'arte costruisce l'Europa" e alle rassegne organizzate dalla stessa galleria.Dal 1996 entra a far parte del Movimento Madí e da allora ha partecipato a tutte le manifestazioni promosse in campo nazionale ed internazionale.Tra le mostre collettive e personali recenti si segnalano: 2001, Campobasso, Galleria Limiti Inchiusi “Fuoriluogo 6” e, presso il Museo Sannitico, “Rappresentazione continua, il segno e l’energia”; 2003, Comune di Summonte (Avellino) ”Ricomincia il battito” e, alla Galleria Sala Uno di Roma “Fuoriluogo 7”; 2005, Galleria Civica di Arte Contemporanea di Termoli “Genius Loci Arte Contemporanea in Molise” e a Campobasso presso la Galleria Limiti Inchiusi - “Molise Glo/cal Identità”; 2006, personale presso il Museo d’Arte Contemporanea di Santa Croce di Magliano; a Tripoli, presso l’Istituto Italiano di Cultura ha partecipato alla mostra “Il filo conduttore” e a Spoltore (Pescara) ha presentato una installazione nella mostra “I colori del territorio”. Nel 2007 ha realizzato una personale ad Oratino (Campobasso) dal titolo “Strutture”, ha partecipato a Campobasso ad una mostra organizzata in occasione del duecentenario della fondazione della provincia, presso la Galleria Limiti Inchiusi, dal titolo “Duecentoanni - Fuoriluogo 11” e a Termoli presso la Galleria Civica di Arte Contemporanea ha partecipato alla mostra “Nuova composizione sperimentale”. Nelle sue realizzazioni recenti è evidente il richiamo al Costruttivismo da un lato ed al Suprematismo dall’altro, sempre rivolto al superamento del limite, all’indagine pluridisciplinare, al coinvolgimento dell’esperienza conoscitiva relativa ai processi percettivi. Del Neoplasticismo sono invece indagati i principi fondamentali: sintesi, piani, colore, composizione, equilibrio. La sua ricerca rifiuta il dato metafisico e si concretizza nell'insieme di relazioni complesse rese in forme essenziali che tengono conto della particolarità del materiale. La presa in considerazione della spazialità legata al supporto lo conduce alla creazione di lavori i cui elementi sono indipendenti e componibili. L’attività artistica è svolta parallelamente alla professione di architetto. Quello con l'architettura è un rapporto che cerca costantemente. L'approccio metodologico è identico: anche l'architettura si esprime attraverso l'unità di forze contrastanti orizzontali-verticali, pieni-vuoti, superfici lucide-opache, concave o convesse. Non tutti gli artisti di un certo livello risultano conosciuti al largo pubblico. Oggi, nel mondo dell'arte, si sovrappongono agli artisti affermati, ed ampiamente storicizzati, quelli bravi, ma non particolarmente conosciuti, i giovani emergenti dalle buone basi, intenti alla ricerca estetica e a guadagnare margini di successo, e le meteore abbaglianti, ovvero gli effimeri. Insomma, una discreta babele d'istanze e di linguaggi genera una certa confusione.
Il fruitore educato all'arte sa ben districarsi, ma chi non e' solito frequentare i salotti ben informati, nonché le gallerie accorsate e i musei propositivi, accusa qualche difficoltà. Vincenzo Mascia è un operatore serio e tranquillo, poco dedito all'amplificazione della sua attività, indubbiamente di tutto rispetto, da conoscere senz'altro. Vive e lavora a Santa Croce di Magliano, in provincia di Campobasso, ed ha preferito il codice “madi”, che ha coinciso con la sua evoluzione artistica.
La valida ed interessante produzione di Vincenzo Mascia è possibile vederla ad ogni manifestazione “madi”.
Il "madi" continua il ventaglio di prerogative dell'astrattismo, proponendo l'opera cinetica ed il quadro esagonato, e non raccoglie, perché volutamente elimina, ogni ingerenza dai fenomeni di espressione, rappresentazione, significazione.
Ma le esperienze "madi", vivificate da varie generazioni di artisti, avvertono i cambi e le flessibilità del tempo e possiamo considerare accettabili nuove formulazioni che prospettano un "post-madi" e addirittura un "alter-madi".
Le nuove aggettivazioni, inedite, inusuali, inconsuete, attivano una costante metodologia di ricerca per un collegamento tra arte e architettura, tra arte e design. Mascia nel 1986 realizza le prime opere inoggettive e nel 1991 determina le prime strutture ad orizzonte estroflesso. Esaminato il lavoro di Fontana, assembla componenti tenendo conto che devono vivere uno spazio reale, e non illusorio, e nega soluzioni prospettiche. Le sue realizzazioni recenti, pur evidenziando il richiamo al costruttivismo ed al suprematismo, sono parimenti indotte e rivolte ad indagare livelli pluridisciplinari. Ogni opera di Mascia tenta, altresì, di recepire ed afferrare quegli utili coinvolgimenti dell'esperienza conoscitiva relativa ai processi percettivi. Le forme neoplastiche precisate rispondono ad essere felici ed assennate sintesi di piani, di colori e di combinazioni compositive. La sua provvida e minuziosa ricerca rifiuta dati figurativi e visioni metafisiche e si concretizza nell'esporre insiemi di rapporti complessi, resi in forme convincenti e capitali grazie alle particolari qualità e margini di affidabilità dei materiali usati. Per Vincenzo Mascia il progetto è la base su cui poter partire per investigare l'iniziale intuizione della forma e poter, poi, proseguire per intessere e per sovrapporre trame ed orditi geometrici di elementare essenzialità. La prima mossa è la scomposizione del quadrato in altre figure geometriche elementari, da regolare in accostamenti o in sovrapposizioni. Da confronti e da scontri tra gli elementi variabili della struttura compositiva si apre un teoria di possibilità estetiche, che tende a compattare un'unità.
Una struttura di Vincenzo Mascia è un appoggio deciso a forme inseguite e, al contempo, uno smistamento di pungoli ottici. Un'altra struttura è un'àncora cromoplastica lanciata a guadagnare lo spazio e a definire un'architettura nell'architettura divina. Vincenzo Mascia cerca d'integrare la sagoma con la silhouette, il principio coloristico con la tinta nuova, il volume pieno con la dimensione aperta per aggregare le tensioni delle forze contrastanti in un sana e saggia saldatura che tenga. Far interagire disciplinatamente forze contrastanti, far valere sagome costruite, motivate di sapienti colori, sottolineare una virtuale inclinazione a superare varchi e ad abbracciare campi di spazio, gestire linee orizzontali e verticali, pieni e vuoti, superfici lucide e opache o concave e convesse è la complessa somma di azioni e di procedimenti attuata da Vincenzo Mascia per sviluppare il superamento dei perimetri e per ammettere dialoghi e contaminazioni.
Sedimentazione di compositi tagli geometrici, sfalsamento dei piani e possibile integrazione di indirizzi di luce sono i punti fermi e qualificanti dell'ultima cosciente e matura produzione di Vincenzo Mascia, che non osa fermarsi per avere ragione delle linee e della materia.
A conclusione del commento critico riportiamo un’intervista a Vincenzo Mascia:
1) Quando ha iniziato l’attività artistica pensava di “tagliare” le sue elaborazioni sul piano del design?
Mi piace molto questa domanda. Innanzi tutto perché molto intelligentemente ha usato il verbo “tagliare” per darmi la possibilità di parlare di Lucio Fontana e della grande rivoluzione spazialista, autore e movimento che sono stati sempre una costante di riferimento del mio lavoro. Ho realizzato negli anni una serie di lavori da me denominati “sulle tracce di Fontana”, nelle quali realizzavo strutture estroflesse incidendo superfici di cartone con segni molto misurati e razionali, che lasciavano intravedere uno sfondo colorato. Picasso aveva trovato la quarta dimensione, inserendo la componente temporale all’interno del quadro, Fontana al di là della superficie aveva trovato altre dimensioni, il vuoto dell’universo, o gli universi paralleli, i suoi tagli erano i buchi neri dove si concentrava l’energia. Io, molto più modestamente, mosso da una visione positivistica della realtà, volevo trovare al di là della superficie ancora luce e colore.
Il design è stata sempre una delle mie passioni, anzi penso che rappresenti una delle grandi espressioni artistiche del 900 in quanto mette in relazione la creatività mirata al soddisfacimento dei bisogni dell’uomo, con i processi di industrializzazione nell’ottica del risparmio delle risorse naturali. Le Corbusier disegna negli anni 20 un tavolo in ferro e vetro, in sostituzione del legno, materiali artificiali, facilmente reperibili, e a basso costo, che creano un basso impatto sull’ambiente. Oggi purtroppo il design è diventato come la moda, si ricerca la firma, l’esclusività, mentre Munari diceva che il miglior oggetto di design è quello anonimo che puoi trovare anche al mercato.
2) Da tempo partecipa alle mostre del MADI’, movimento fondato da Carmelo Arden Quinn. Pensa che le sollecitazioni estetiche su cui convergeva il pensiero dell’artista argentino siano ancora attuali?
L’arte che meglio rappresenta questo periodo storico è un’arte contaminata, dove i vari linguaggi, arti visive, letteratura, teatro, cinema si intersecano, si fondono, si scontrano in maniera trasversale, non vorrei usare un’espressione retorica ma siamo nell’era globale dove le informazioni viaggiano alla velocità della luce. Il MADI’ è espressione di un determinato momento storico e culturale, ma le sue premesse possono essere attualizzate se gli artisti aderenti al movimento sapranno tradurre in una estetica rinnovata i suoi principi fondamentali, di un’arte autosignificante, che non rappresenta, non significa, non esprime.
3) Quali città italiane ed estere l’ hanno interessato non solo per il “landscape”?
Ovviamente ognuno parla delle città che conosce. Fondamentale per la mia formazione sono stati i sei anni nei quali ho vissuto a Roma nel periodo universitario. Una città stratificata, dove trovi le testimonianze dell’impero, la città medievale, la Roma rinascimentale e barocca, purtroppo poco contemporaneo.
Ho fatto un viaggio nel nord Europa e una città che mi ha impressionato per il suo dinamismo, dove noti una gran voglia di rinascita culturale è Berlino. Sono rimasto molto affascinato dal memoriale alla “Shoah” dell’architetto Eisenman: duemilasettecentoundici stele di cemento nei pressi della Porta di Brandeburgo. Un’opera che ti trasmette un senso di vuoto, di angoscia.
4) Napoli viene vissuta da molti artisti come capitale sorgiva di forte creatività. Pensa che molti artisti se avessero vissuto e lavorato in altre città avrebbero avuto lo stesso successo ed un ritorno economico dal mercato dell’arte?
Napoli è una città straordinaria, socialmente, culturalmente, paesaggisticamente, nel 700 era una delle grandi capitali culturali d’Europa. Ma ognuno è fabbro della sua fortuna, non credo che essere nato o aver vissuto in una città piuttosto che in un’altra possa cambiare il destino di un artista. A tutti, prima o poi, la vita offre l’opportunità di un “provino per Sanremo”, o i 15 minuti di notorietà di cui parlava Andy Wharol, il successo dipende poi dal talento personale. Certo che un pizzico di fortuna nella vita non guasta, ma conta molto la determinazione.
5) Lei vive in Molise e tutto si muove o è fermo?
In Molise le cose si muovono a scatti. Ci sono periodi bui in cui tutto è fermo e periodi di forte vitalità. Ma tutto è molto episodico, non programmato. Dipende molto dalla vivacità degli artisti che provocano gli avvenimenti o dalla sensibilità dei politici di turno.
6) Forse si realizzerà a Cantalupo del Sannio l’aeroporto del Molise. Che attività manca in Regione? Ma cosa manca agli artisti molisani?
Il trasporto aereo è in forte espansione, i voli low cost si sostanziano come sicura e conveniente alternativa ad altre forme di mobilità. Un aeroporto in Molise lo aiuterebbe ad uscire dall’isolamento e a metterlo in relazione con altre realtà territoriali. In Molise non è che manchi una specifica attività, a mio parere quel che manca o è poco sviluppata è una vera cultura d’impresa, fatta di idee innovative e propensione al rischio. Agli artisti molisani non manca il talento o la preparazione culturale, il Molise è pieno di bravi artisti, ma quelli che hanno fatto carriera sono dovuti andare via o hanno dovuto farsi conoscere fuori dal Molise, perché in regione non esiste il “sistema dell’arte”, un insieme fatto di artisti, luoghi di produzione culturale, critica, stampa, committenti e collezionisti.
Agosto 2009
Zsuzsa Ordasi
LINEE DI FORZA
In questa meravigliosa città e in questo meraviglioso spazio espositivo non c’è bisogno di spiegare che cosa è il MADI perché da tempo qui ci sono delle mostre dei più insigni artisti ungheresi e anche stranieri appartenenti a MADI. Tutto ciò è dovuto al patrocinato di János Rechnitzer, al suo impegno per far conoscere questo movimento e i suoi artisti, nonché a Zsuzsa Dárdai e János Saxon Szász, organizzatori e curatori di queste eccezionali mostre tematiche.
Malgrado questo, penso che non è inutile ricordare che il MADI è un movimento molto importante nell’arte dei secoli 20 e 21 fin dalla sua fondazione avvenuta nel 1946. E’ un movimento che orienta le intenzioni artistiche dentro una certa cornice e comprende una particolare creazione di oggetti. In conseguenza, esistono degli elementi di questo movimento che devono essere per forza accettati dall’artista che desidera associarsi al gruppo MADI, elementi come movimento, astrazione, dinamismo, invenzione, poligonalità, spazialità, applicazione molto meditata dei colori, il pensiero materico, la variabilità, e nello stesso tempo l’equilibrio e l’ordine. Ma l’accettazione di questi concetti base non significa che gli artisti MADI realizzassero opere simili, al contrario, attraverso l’opera ognuno esprime il suo ego soggettivo, quindi ognuno crea opere che caratterizzano solo il singolo artista, opere non confondibili con quelle di nessun altro, ma singole e personali nei limiti delle cornici definite dall’artista stesso. L’artista MADI crea, crea oggetti. Sceglie la materia per lui più adatta, la manipola, cerca le sue caratteristiche che, con i suoi esperimenti, a volte vuole e riesce anche a cambiare. E non ragiona soltanto nella materia che ha a disposizione ma prende in considerazione anche il suo ambiente, compone introducendo nell’opera anche gli elementi dell’esterno come lo spazio, la luce, il tempo. Così la sua opera diventa completa, base della quale è la meditazione fondata sul pensiero geometrico. Le opere MADI sembrano composte di elementi semplici: linea, punto, triangolo, quadrangolo, poliangolo, cerchio, semicerchio e le formazioni manipolate di essi attraverso le quali si formano nello spazio tridimensionale delle configurazioni spesso strane e curiose. Ciò costituisce una tale possibilità e nello stesso tempo anche una tale sfida all’artista che ogni generazione cerca di dare delle risposte alle domande che si pongono in proposito. Le fonti, le basi sono i lavori degli artisti iniziatori di questo pensiero astratto che portò a soluzioni artistiche molto diverse per mano di ogni autore. Ciò non potrebbe essere altrimenti perché ogni artista subisce impulsi diversi, ogni artista riflette su cose diverse dal vasto bagaglio culturale-artistico o dalla ricca teca delle manifestazioni e realizzazioni artistiche. A tutto ciò l’artista aggiunge il suo ego soggettivo, la sua formazione, il suo ambiente attraverso i quali riesce a rendere assolutamente personali gli oggetti apparentemente „oggettivi”. In questo spazio espositivo abbiamo già conosciuto l’opera di numerosi artisti ungheresi e stranieri del movimento MADI. Le mostre collettive servono per vedere in ampio orizzonte i risultati del MADI perché ogni artista ci manda solo uno o due lavori molto caratteristici della sua produzione. Queste esposizioni approvano la forza e la vitalità di quest’arte, mostrano queste espressioni che si formano se si ha una base forte e sicura, ma ci insegnano anche quanto questi linguaggi soggettivi si collegano pur essendo ognuno di essi personalizzati dal singolo artista.
E’ questo che vediamo anche alla mostra di oggi dove espongono due artisti molto diversi uno dall’altro ma che si completano a una presentazione comune. Benché le opere siano sistemate alternate, non c’è bisogno di leggere la didascalia per capire di quale autore dei due fosse il singolo lavoro. Si tratta di due artisti maturi, insigni maestri del MADI italiano e internazionale: Gaetano Pinna e Vincenzo Mascia. Ci hanno portato solo un assaggio dei prodotti della loro attività artistica. Tutti e due sono noti, conosciuti, hanno partecipato con successo a numerosi notevoli mostre in Italia e all’estero, alle manifestazioni dell’ARTE STRUKTÚRA, sono membri del gruppo italiano del MADI. Ma ritengo più importante sottolineare che tutti e due hanno contribuito e continuano a contribuire a rendere ancora più interessante e più colorito la tavolozza internazionale dell’arte MADI. Studiando le loro opere è stato molto interessante vedere come si forma la personalità del singolo autore. Anzi, in base alle loro bozze si può scoprire quale processo meditativo precede la realizzazione dell’opera definitiva, e quali sono le questioni poste dallo stesso artista nel corso della creazione.
Noi spettatori vediamo solo l’opera realizzata, la guardiamo, la studiamo, tentiamo di scoprire le sue possibilità quando proviamo a modificarla, perché sappiamo bene che certe opere si possono presentare anche in più varianti. E ciò fa piacere, perché queste opere sono giocose, reali, ma non appartengono alla realtà mimetica. Colgono proprio la varietà e la molteplicità della realtà. In modo astratto ma con elementi concreti. Forse è proprio questo l’elemento e anche il pregio più importante del MADI. Tutti e due gli artisti espositori si concentrano fortemente sulla conquista dello spazio. Pinna introduce lo spazio nell’opera, Mascia esce nello spazio esterno. Nelle opere di Pinna lo spazio esterno captato anche in più piani diviene elemento organico dell’opera, egli spesso si serve del processo della rotazione attraverso il quale si formano delle costruzioni molto strane: forme geometriche che superano quelle canonizzate, collega in modo speciale le forme chiuse con quelle aperte per creare quella spazialità vitale in cui anche gli elementi semplici si riempiono di vita. Mascia parte da forme essenziali e studia per bene ogni loro caratteristica. In diverse opere da una base monocroma stende nello spazio con delle linee semplici ma forti che vanno in varie direzioni. E con ciò crea delle nuove formazioni, crea una nuova geometria che ci tocca per la sua curiosità e anche per la sua bellezza.
Come si impara dalle biografie, tutti e due gli artisti hanno svolto degli studi nel campo dell’architettura e ciò si capisce guardando le loro opere: considerando lo spazio una cosa complessa offrono concezioni e interpretazioni differenti della spazialità. E lo spettatore può decidere quale linea di forza seguire per camminare con loro nello spazio.
Maggio 2009
Lorenzo CANOVA
Geometrie dinamiche
Presentazione della mostra FORCE LINES di Pinna e Mascia a Gyor (Ungheria)
Geometria e astrazione, analisi della percezione e rigore costruttivo, questi sono alcuni dei paradigmi elaborati da uno dei nuclei centrali delle avanguardie storiche che mostrano ancora oggi la validità e la fecondità di un percorso snodato attraverso un secolo di innovazioni e sperimentazioni creative, attraverso esperienze diverse che vanno da Kandinsky al Futurismo e al Suprematismo, fino all’arte programmata, al Minimalismo e oltre. All’interno di questo basilare versante dell’arte del Novecento e della sua visione progettuale e analitica si colloca la densa e prolungata esperienza internazionale di quel movimento Madì a cui appartengono Vincenzo Mascia e Gaetano Pinna. La visione di questi due artisti è legata da una comune volontà di strutturare in senso fortemente razionale l’impianto aniconico di un’opera concepita in rapporto dinamico con lo spazio che l’avvolge e con l’occhio dello spettatore all’interno della dialettica oggetto-ambiente. Questo dinamismo, che può trovare ispirazione e radici negli esiti più interessati allo studio del movimento e della tensione spaziale e plastica dell’opera che uniscono Balla, Malevic, Tatlin, El Lissitzky e molti altri autori fondamentali, caratterizza, lega e distingue le ricerche di Mascia e Pinna che in questa indagine comune mostrano le peculiarità del proprio mondo creativo. I due artisti difatti sono vicini nella comune volontà di superare gli assetti prospettici e visivi tradizionali elaborando le proprie opere attraverso un sistema dove l’oggetto si apre a una pluralità di punti di osservazione senza un centro univoco ma attraverso una molteplicità di elementi focali che creano uno slittamento e un continuo riadattamento dei piani e della relazione con la luce. Le opere di Mascia e Pinna si avvicinano pertanto nel loro essere pittura e scultura allo stesso tempo in una forma che deliberatamente attinge alle due arti senza rinchiudersi definitivamente in nessuna delle due. In questo i due autori proseguono evidentemente la determinazione delle correnti analitico-razionali del Novecento nell’uscire dai confini prefissati dell’opera per approdare alla dimensione progettuale di un’architettura intesa come metodo e strumento positivo di riorganizzazione del mondo.
In tale contesto Mascia dichiara spesso il proprio interesse per l’opera di Mondrian e di Kandinsky da cui derivano scelte cromatiche che rendono vibrante e accesa la composizione spaziale dei suoi lavori attraverso un utilizzo oculato di tasselli e di elementi colorati mediante i quali la geometria sembra alleggerita dalla poesia di un lirismo felice, da una leggerezza che s’insinua nella struttura analitica e nell’ordine severo dell’opera.
Pinna, invece, predilige il rigore e la perentoria plasticità di codici quasi minimali che passano dal metallo al nero, dal grigio alle trasparenze per approdare talvolta al rosa, al rosso o all’azzurro, assunti tuttavia integralmente non nei loro valori cromatici, ma come elementi strutturali che con la loro forma “aperta” cercano di fondare un sistema di interazione tra corpi, spazio e luce nella direzione di un nuovo e fecondo dialogo con il territorio pulsante della vita.
Maggio 2009
Paola Silvia UBIALI
MADI, arte come invenzione
Sin dalla sua nascita, avvenuta a Buenos Aires nel 1946, in periodo peronista, Madí è stata un’officina di libera creazione e sperimentazione che ebbe alcune affinità con altre precedenti e/o parallele esperienze europee, dal Suprematismo russo al Neoplasticismo olandese, dal Razionalismo tedesco alla più recente École de Paris. Nel corso di oltre sessant’anni di storia senza soluzione di continuità, il movimento Madí ha saputo aprirsi a giovani seguaci, compiere una costante palingenesi evitando di chiudersi ed involversi come è accaduto a molte altre formazioni artistiche, paralizzate dalla mancanza di rinnovamento e bloccate in uno stagnante conservatorismo. Oggi il Madismo è un fenomeno internazionale che coinvolge oltre cento artisti, tutti fra loro strettamente collegati, organizzati in gruppi in Argentina, Belgio, Francia, Germania, Italia, Stati Uniti, Ungheria, Venezuela e con singole presenze in Inghilterra, Slovacchia, Spagna, Svezia e Olanda; vanta musei dedicati e pinacoteche con raccolte esclusivamente ad esso consacrate. Madí (da Materialismo Dialettico) è “arte di rottura” e le teorie che ne stanno alla base hanno dato un contributo fondamentale al rinnovamento artistico avvenuto nel dopoguerra; basti pensare alla liberazione dalla classica costruzione rettangolare o quadrata del dipinto nonché dalla costrizione della cornice; all’uso di materiali non convenzionali; all’introduzione del movimento nell’opera; all’analisi della percezione visiva nell’arte con sensibili ed utili collegamenti con le nuove teorie Gestaltiche, anticipando le successive ricerche, dall'arte cinetica al minimalismo. L’artista Madí è tutt’oggi una sorta di “costruttore”; egli manipola e modifica i materiali, diventando allo stesso tempo non solo pittore e scultore, ma anche architetto, falegname, operaio. Sin dalle sue origini, questo metodo espressivo è andato oltre il realismo; una delle dimensioni nelle quali l’artista può esercitare la sua libertà è proprio il grado di astrazione cui ricorre per rendere il suo argomento. Avendo completamente rinunciato all’imitazione e alla verosimiglianza, i Madisti lavorano su forme non mimetiche - non nel senso classico del termine - e sono svincolati dalla sottomissione alle molteplicità della realtà. L’artista Madí cerca di cogliere l’essenza e la purezza attraverso motivi che vanno oltre la geometria, inventando forme nuove. Ma qual è il limite entro il quale egli può spingersi senza che la sua opera venga recepita come un vuoto ed insensato gioco formalistico? A mio parere fin quando permane quell’afflato vitale che distingue l’opera d’arte dal freddo motivo decorativo, fin quando riesce a svelare il significato più recondito delle cose rimuovendo quel “velo di Maya” che, nella visione schopenhaueriana, nasconde la verità. L’opera Madí non geometrizza il reale, non è narrativa, non rappresenta nulla di pre-costituito ed è inutile cercare al suo interno le forme della natura o il sentimento dell’artista come lo si può trovare nelle opere tradizionali perché l’approccio è completamente diverso. L’opera Madí esprime se stessa e nulla di più. Dona piacere e appaga lo spettatore, ma non intende rispecchiare lo stato d’animo di chi l’ha creata. E’ il fruitore stesso che, grazie ad essa, sarà spontaneamente portato a scoprire quelle emozioni che gli vengono suggerite e che ognuno percepisce in maniera diversa. Credo sia questo uno dei motivi per i quali l’opera Madí non stanca, non invecchia e con la sua forte componente ludica, diverte. Nell’opera Madí i vari elementi fungono da struttura e si sostengono a vicenda mantenendo una condizione imprescindibile: l’equilibrio. Le forze visive si compensano l’una con l’altra creando complicità e sinergia nei rapporti di peso, collocazione, direzione, movimento e contribuendo alla bellezza ed alla vitalità del lavoro artistico. L’artista Madí crea un oggetto “altro” organizzando le sue esperienze e le sue verità entro una forma originale e caratteristica della sua personalità. Forma quindi che non imita, ma “cattura” il senso della vita con l’ausilio delle tre dimensioni spaziali, della luce e del colore usati come strumenti di identificazione e differenziazione. E’ quanto emerge per esempio dalle opere di Mirella Forlivesi nelle quali il colore accentua le qualità espressive della forma e funge da componente dinamicizzante, stimolo sensoriale ed emotivo, creando profondità e tridimensionalità. Non sempre il colore è determinante nell’opera Madí. C’è anche chi, come Franco Cortese, rinuncia alla varietà dei cromatismi per indagare le forme attraverso le essenziali preziosità del nero con l’impiego di materiali inusuali, impermeabili alla luce, come il ferro grafitato. Giuseppe Rosa si dedica sia a sviluppi optical, esprimendosi nell’eleganza di contrasti bianco/nero, che alle potenzialità espressive di piani dai colori primari allacciati tra loro, abbinati ad inserti in alluminio, con particolare attenzione a rigore e simmetria. Si tratta di una scelta piuttosto diversa da quella di Piergiorgio Zangara che lavora con il plexiglas colorato traslucido; questi basa le sue ricerche sulla sovrapposizione di trasparenze percorrendo le forme ed evidenziandone le linee strutturali quasi come in un ologramma, o ancora incasellandole e inscatolandole in complessi calcoli sequenziali. Reale Franco Frangi individua le forme geometrice primigenie, le sovrappone, le espande nell’ambiente creandone di nuove ed irregolari, dando luogo a costruzioni architettoniche immaginarie; parallelamente lavora sulla dinamica delle molteplici possibilità di accostamento dei colori suggeritegli da raziocino e fantasia, prestando massima attenzione all’equilibrio strutturale della composizione. Gaetano Pinna realizza sia costruzioni mobili in forex leggere, aeree e liberamente fluttuanti, che strutture proiettate nello spazio, incastrate nella torsione di un perpetuo movimento rotatorio su più piani. Gino Luggi sceglie forme semplici e pure, poi ne smorza la severità ritagliandole ed arricchendole con particolari inserti colorati che segnano le trame dei suoi percorsi immaginari. Marta Pilone studia le potenzialità della linea sinuosa attraverso virtuosistici giochi di onde, curve spezzate, cerchi e semicerchi, sottomettendo e piegando la materia alle sue precise esigenze. Il linguaggio di Renato Milo trova la sua forza nella levità dei materiali trasparenti o specchianti, attraverso i quali costruisce strutture tridimensionali dalle forme tortili o aggettanti, vibranti di luce ed iridescenze. La grammatica di Vincenzo Mascia alterna rigore compositivo e timbrico - nelle opere di stampo più costruttivista - a libertà espressiva nei lavori in cui l’artista traccia brevi segni diagonali colorati che “disturbano” giocosamente ed interrompono ad intermittenza le superfici monocrome. Gianfranco Nicolato rivela una forte capacità di inventare composizioni articolate “double-face”, fruibili quindi da entrambi i lati, assemblando segmenti circolari/lineari in oralcover o in multistrato smaltato con esiti di sorprendente estro strutturale. Pur lavorando con un proprio linguaggio personale ed inimitabile, in ognuno degli artisti è sempre radicata ed evidente l’appartenenza alla stessa matrice, che l’occhio attento sa riconoscere. Perché essere Madisti non è semplicemente il poter vantare l’appartenenza ad un importante movimento storico, ma è fondamentalmente un modo unico di sentire l’arte e soprattutto, uno stile di vita.
Bergamo marzo 2009
Giorgio DI GENOVA
Arte madì italia
dal catalogo della mostra presso il Museo Bargellini di Pieve di Cento (FE) – 2002 ………. E Cecera, Mascia e Milo, i più giovani del Gruppo Madì, che testimoniano un radicamento nel meridione d’Italia delle tematiche di questa neoavanguardia nata oltre cinquant’anni fa in Argentina, non smentiscono tale varietà di inflessioni a cominciare dal meno giovane dei più giovani.………. Più canonico appare Mascia nelle sue strutture di ortogonalità riveduta e corretta. I singoli elementi delle sue composizioni, per lo più lignee, sono evidenziati dal taglio rettilineo dei lati che nelle giustapposizioni e nelle sovrapposizioni, quasi fossero “pareti” di un’architettura visiva, si risolvono razionalmente in una limpida connotazione costruttivista. Spesso Mascia accentua tali ortogonalità con listelli di colore diverso da quelli dei quadrati, rettangoli, triangoli e forme parallele accorpati a far strutture, sempre con palesi criteri dominati da una visione semplice ed ordinata, nonostante il ricorso alle soluzioni diagonali. Se nei lavori a parete le direttrici lineari si risolvono in prolungamenti nello spazio, creando dinamiche che generano tensionalità interno/esterno, nei lavori tridimensionali l’opzione architettonica si appalesa meglio nel concatenamento dei singoli elementi, la cui struttura elementare viene accentuata visivamente dalle compatte stesure dei differenti colori su ciascuno di essi.
Marzo 2002
Renata CASARIN
Vincenzo Mascia nasce nel 1957 a Santa Croce di Magliano (Campobasso); consegue la laurea alla facoltà di architettura di Roma nel 1982. L’attitudine all’investigazione del codice iconico, mediata dalla lucidità critica dell’insegnamento di Filiberto Menna, presto lo portano a coniugare le speculazioni del linguaggio concettuale con lo smontaggio del sistema segnico dell’arte costruttivista, pervenendo nel 1986 a comporre i primi lavori concretisti.
Inizia l’attività espositiva in collettive di artisti molisani, ma già nel 1987 e nel 1990 allestisce le personali presso la Galleria Civica di Campobasso e il Centro Arte Termoli. Negli anni ‘90 del secolo XX abbandona il lavoro inoggettuale sulla superficie per realizzare le prime strutture estroflesse che reinterpretano, in modo rigoroso e sempre innovativo, l’eredità storica del Neoplasticismo olandese e del Suprematismo russo. La consapevolezza dei mezzi espressivi conducono l’artista a riflettere e ad indagare le varianti e le combinazioni delle forme elementari, a loro volta percettivamente mutanti in relazione all’adozione dello spettro cromatico dei primari e dei complementari. Il colore è assunto non tanto per le valenze simboliche di kandinskiana memoria, quanto per la capacità di mutare qualitativamente la resa visiva e di trasformare in campi di forza sempre diversi gli elementi geometrici. Una simile ricerca innesta quella sullo spazio, non inscrivibile nell’ordine naturale prospettico rinascimentale ma nell’espansione pluridirezionale della sua azione, capace di coinvolgere oltre le tre dimensioni: il dentro e il fuori, il recto e il verso del piano di riferimento. Il ciclo “Sulle tracce di Fontana” condensa tali assunti speculativi e immette l’opera dell’artista nell’ambiente di Arte Struktura di Milano, partecipando, tra il 1992 e il 1996, a diverse mostre organizzate dalla Galleria di Anna Canali. Sempre nel 1996 aderisce al movimento Madì: è presente alla rassegna milanese “Movimento Internazionale Madì Italia” e, l’anno seguente, a “L’arte costruisce l’Europa”, pure organizzata l’anno seguente da Arte Struktura di Milano.. La sua attività entra nei circuiti artistici europei con l’invito ad aderire, tra il 1997 e il 1998, a “Grands et jeunes d’aujourd’hui” e a “Comparaisons ‘98” tenutesi a Parigi; al “Festival Euro Madì” di Gyor in Ungheria, mentre s’infittiscono le presenze alle esposizioni nazionali del gruppo Madì, quella curata dal Comune di Ercolano (Napoli), a Villa Campolieto; quella curata dal comune di Ostiglia (Mantova), a palazzo Foglia. Nel 1999 è tra gli artisti che espongono da Madi a Madi alla Civica Galleria d’Arte Moderna di Gallarate (Varese) e a Terzo millennio, curata dal Comune di Portici (Napoli) e alla mostra Italia-Argentina/Argentina-Italia, l’arte costruita per un mondo costruttivo presso Arte Struktura di Milano. L’ultima produzione, pur coerente con tutta l’attività artistica precedente, predilige strutture minimali che occupano un ingombro fisico capace di sollecitare l’attenzione visiva dello spettatore, di stimolarne la sensorialità e d’immettere quindi nel circuito dell’opera valenze precipuamente estetiche, di coinvolgimento percettivo e mentale. Fra le mostre più recenti si segnalano: Movimento astrazione dimensione invenzione a Villa Bruno di San Giorgio a Cremano (Napoli); Arte Madi International alla Galerie Emilia Suciu di Ettlingen in Germania; le collettive confluenze di Napoli e di Campomarino (Campobasso); infine Madi plaszika, sikban, Térben alla Fény Galéria di Budapest, in Ungheria. Vive e lavora a Santa Croce di Magliano (Campobasso).
Marzo 2002
Carmine BENINCASA
La pittura di Vincenzo Mascia procede per trame di tessuto cromatico, molto ordinate nel loro incrociarsi ortogonalmente, preziose quanto banali, garbate e frivole con un moderato invito al fantastico in veste decorativa. L’ordine paziente e penelopeo allude ad un riflesso dell’ordine percettivo e programmatico voluto dalla op-art. In continuità parziale con le esperienze più vive del mondo cinetico Mascia realizza, attraverso lo spostamento e lo sfasamento dei piani una immagine non più realistica o naturalistica, bensì organizza un processo di decifrazione dei dati dell’esperienza per restituire l’oggetto della percezione ormai smembrato e reinterpretato esteticamente. Egli ci conduce nel mondo della visione come apparenza ed intuizione extrasensoriale, dove l’ambiguità e l’allusività delle immagini è direttamente proporzionale allo stato di dissociazione che l’artista stesso vive nei confronti con la realtà. Una dialettica della negazione, di se e di ogni cosa, al limite della coscienza stessa dell’uomo. L’alfabeto elementare di questo giovane artista conduce ad un nuovo linguaggio dove lettere, la forma geometrica e la sostanza, il colore, si coniugano per definire l’universo dell’utopia. Un segno di utopia che non è più l’utopismo routico ma una nuova visione del mondo onnicomprensiva sull’esempio dei grandi astrattisti del secolo, che è ancora nuova epistemologia, in quanto riflessione sulla verità della percezione o ancora come ricorso alla misura della sperimentazione nel controllo dell’opera d’arte. L’immagine ha perciò il fascino di coinvolgerci nel duplice livello di trasmissione messianica e riconoscibilità scientifico sperimentale con l’efficacia che fu già dei grandi astrattisti storici, da Kupka a Balla, da Kandinsky a Mondrian, da Malevic a Tatlin. Un ambito rigorosamente sperimentale ma non dimostrativo, in quanto l’immagine muove dall’intuizione, si rafforza con l’esplosone oltre i limiti del fenomeno e si concretizza nell’invenzione del vocabolario analogico delle forme. Una ricerca inattuale, che riguarda lòa sfera dell’arte solo in parte ma che ha in comune con essa la ricerca di una semantica espressiva comune all’arte e alla vita. L’arte è sempre oltre il segno, la vita è al di qua del messaggio: il quadro ne riflette solo la presenza dei segnali, le tracce di un significato.
Agosto 1984
Achille PACE
Mascia ha indubbio interesse per le tecniche “costruttiviste”, cioè per tutte quelle tecniche che hanno relazione e attinenza con le tecniche progettuali, razionali di una realtà sociale produttivistica.
Ma se la società progetta il consumo e la quantità, Mascia progetta la qualità e l’unicità, se il sistema vuole l’obsolescenza dell’oggetto, Mascia tende alla durata e al soggetto. Osservando il suo impegno per una corretta misura delle proporzionalità formali, l’equilibrio delle parti del quadro, l’essenzialità e il rigore dei segni, ci si rende conto come tutto tende a una realtà formale che trova nell’idea strutturale dell’immagine spaziale, la giustificazione del suo rapporto con il mondo della produzione come valore. Eliminando ogni aggettivo inutile e tutto ciò che è istintuale, pur rimanendo spontaneo, arriva a concepire il quadro come un modello che è insieme ordine formale, metrica proporzionale e unità delle parti in contrasto. Insomma Mascia più che convincerci con il sentimento e le sensazioni, ci vuole persuadere attraverso il pensiero razionale. E questo non è da poco oggi che viviamo un momento problematico per la crisi che la “ragione” sta attraversando. Adoperando una strumentazione molto difficile e pericolosa, proprio per la rarefazione dei contenuti soggettivi e passionali, rischia molto specialmente nei riguardi della comunicazione. Ma se il rigore e il ritmo si mantengono a misura e tensione giuste e armoniche, potrà continuare con questa poetica fino in fondo, seguendo con sincerità la sua vena formativa. Si deve tener conto che Mascia ha fatto studi di architettura e dunque di “progettazione”. Ma bisogna stare attenti a non confondere il segno del progetto architettonico con il segno del pittore, perché se il progetto architettonico rimanda a qualcosa che gli è fuori, che si realizzerà dopo, il “progetto” del pittore è reale in sé stesso, non rimanda al dopo, ma a ciò che è in quel momento, e dunque deve avere un valore fine e se stesso, completo, significante. Proprio per questa ragione la poetica del “segno” sembra essere, per ora, ciò che più impegna il lavoro di Mascia. Segni cercati volta per volta e articolati nei rapporti di incontro-scontro, di concavo-convesso, di positivo-negativo, dove un sottile rapporto di bianco su bianco, indica una vibrazione di luce, a volte contrastata da un forte colore primario che attira a sé il movimento direzionale della composizione. La superficie neutra, o pausa del fondo, non intende avere un diretto rapporto con i segni che le sono sopra, ma più precisamente stabilire un intervallo allusivo di realtà esterna, continua, affinché il quadro non si chiuda in una cornice delimitante, ma si possa espandere allo spazio reale, esterno. Si noti il continuo appoggio dei segni ai margine del quadro da cui hanno inizio. Manca nei suoi quadri un qualsiasi accenno a un centro, o convergenza tridimensionale prospettica, in cui i segni si relazionano tra di loro. Rimane solo un colloquio di attrazione e repulsione dei singoli elementi autonomi. Lo spazio non vuole essere un infinito visivo, ma un infinito di forze in continuo equilibrio. Mascia adopera una tecnica che richiede una regia esterna sui “patterns visivi”, e proprio per questa ragione, una fattura articolata, attenta e tesa dei segni è quanto mai importante, i quali segni, essendo unici e protagonisti, valgono per la loro nitidezza e dichiarata precisione. Una ricerca elementare ma difficile, estremamente mentale, dove si gioca tutto con il rischio di perdere. Ma proprio per questo il suo lavoro merita incoraggiamento, affinché possa continuare e progredire nella direzione della qualità, della purezza dei segni e della civiltà del linguaggio.
Agosto 1984
Vincenzo MASCIA
Non mi sento pittore, designer piuttosto. I miei lavori li concepisco come prototipi di una produzione seriale. Un oggetto di design è tanto più vero quanto più esso entra nella nostra quotidianità senza stravolgerla. Nei miei lavori allo stesso modo ricerco la banalità. L’oggetto accompagna la nostra vita con la sua anonima, muta e rassicurante presenza.
1995
Abbiamo tutti creduto in un grande sogno. Costruire il socialismo. Questo grande sogno ha generato una parte delle avanguardie artistiche del novecento: costruttivismo, suprematismo, neoplasticismo. Quella di una società senza classi e di un’arte totale, derivata dalla sintesi di tutte le arti, rimane la più affascinante delle utopie. L’arte costruita, muovendo dall’azzeramento linguistico e formale (nessuna forma esiste a priori: si fa forma con l’arte del costruire, mettere insieme, comporre), rompe con la tradizione storicista e realizza la continuità tra arte e tecnologia. Questa intima connessione con altre discipline (architettura, grafica, disegno industriale), fa si che essa sia un’arte ancora testardamente vitale. Penso che ogni artista che opera nell’ambito della ricerca percorra trasversalmente la storia delle avanguardie. Io non sono mai stato un pittore. Ho cominciato ad occuparmi d’arte nel 1981, quando ho capito che l’arte era soprattutto un fatto mentale e che si poteva dipingere anche col cervello. Il mio primo quadro, intitolato “nero su bianco” altro non era che il titolo stesso scritto in negativo sulla tela, ottenuto, cioè, campendo di nero i contorni delle lettere. I miei amici mi facevano notare che al più sarebbe dovuto essere bianco su nero (era una scritta bianca su fondo nero, ed io spiegavo che il quadro era tutto lì, ruotava intorno a questo concetto apparentemente contraddittorio ma vero, poiché avevo disteso del colore nero su un supporto, la tela, che originariamente era bianca. Ho giocato con queste tautologie per un paio d’anni, poi ho iniziato a comporre dei quadri concretisti. Dopo un po’ di tempo sentii però netta la sensazione di aver sfondato una porta aperta, di ripetere cose già elaborate magnificamente da altri autori. Alle prese con un cartone inciso con un taglierino notai un giorno che deformandolo ne venivano fuori delle strutture tridimensionali. Era quello che in quel momento andavo cercando e cioè una sintesi tra la strutturalità costruttivista e la concettualità spaziale di Fontana.Al MADI’ sono approdato più tardi ed in maniera inconsapevole. Lavorando a lungo sul ciclo di opere titolato “sulle tracce di Fontana” ad un certo punto intuii che bisognava travalicare i limiti del contorno del quadro che mi appariva, ormai, come un universo a sé, concluso, che non ammetteva dialogo, contaminazioni. Volevo che il quadro esplodesse in mille frammenti, che superasse i propri limiti e provasse a conquistare lo spazio al di fuori di sé. Così ho cominciato a lavorare sulla scomposizione del quadrato in altre forme geometriche elementari che metto poi insieme per accostamento o sovrapposizione. Quello che mi interessa è il confronto-scontro tra gli elementi della composizione con il fine ultimo dell’equilibrio, dell’unità delle parti in contrasto. Un ruolo fondamentale nei miei lavori recenti è svolto dagli elementi lineari: listelli di legno colorato che, di volta in volta, sottolineano, evidenziano particolari direzioni o rafforzano particolari elementi. Da qualche tempo sto isolando questi elementi lineari per dargli assoluta autonomia, per costruire con essi un’architettura nell’architettura. Quello con l’architettura è un rapporto che cerco costantemente. L’approccio metodologico è identico. Anche l’architettura si manifesta attraverso l’unità di forze contrastanti: orizzontali-verticali, pieni-vuoti, superfici lucide o opache, concave o convesse.
Gennaio 1997
Mi piace parlare sottovoce; a volte preferisco il silenzio alle parole. Non amo le frasi urlate o i gesti eclatanti. Credo in una onesta professionalità frutto di impegno e di serio lavoro. Nel Madi penso che dobbiamo continuare e parlare la lingua dei padri, arricchendola, via via, di nuovi aggettivi, inusuali, inconsueti, ma mai gratuiti. Madi non è uno stile al quale ci si può facilmente riferire; non è sufficiente ritagliare un angolo del quadro per creare l’opera madi. Madi è un modo di essere e di sentire l’arte; con discrezione, senza proclami e senza la presunzione di essere i depositari della verità assoluta, con la capacità di rimettere continuamente in discussione le nostre certezze. Il mio contributo al madi è attuato dalla costante ricerca di un collegamento, di metodo, tra arte e architettura, tra arte e design. Ultimamente sto cercando, attraverso lo sfalsamento dei piani, di far entrare la luce come coprotagonista delle mie strutture.
Febbraio 2002
artista madì
VINCENZO MASCIA